Empatia

 


L’empatia, dal greco empatéia, composta da en = dentro e pathos = sofferenza o sentimento, nell’antichità indicava il rapporto emozionale di partecipazione che legava l’autore-cantore al suo pubblico.

In psicologia è uno degli strumenti più potenti a disposizione dello psicoterapeuta che gli consente di entrare in sintonia con il paziente, creando un clima di connessione autentica e profonda.

L’empatia permette la comprensione delle ragioni più profonde della storia del paziente, necessaria per poterlo accompagnare in un percorso di cambiamento.

Per provare una corretta empatia, è fondamentale che lo psicoterapeuta sia in grado di attingere a parti di sé che nel passato hanno fatto esperienza del dolore e della sofferenza – pur avendoli ora superati – per creare un clima di connessione autentica e profonda, riuscendo a “mettersi nei panni dell’altro”.

Attraverso l’empatia si riesce a comprendere a pieno lo stato d’animo altrui, sia che si tratti di gioia, che di dolore, comprendendo immediatamente i processi psichici dell’altro.

 

Stabilire questo genere di connessione è un’operazione tutt’altro che facile e scontata: spesso, non soltanto i più cari amici della persona che confida loro la propria sofferenza vi si sottraggono istintivamente, ma persino alcuni “addetti ai lavori”, che, trovando difficoltà a sopportare un tale peso senza a loro volta proteggersi, risultano emotivamente distanti e, appunto, non empatici.

In questo caso, le parole usate dal terapeuta possono essere rivelatrici. Frasi come “almeno hai questo”, oppure “però devi anche considerare quello”, si ergono in realtà a meccanismi di difesa rispetto alla paura e all’angoscia che la sofferenza e il dolore altrui suscitano in ogni animo umano.

 

Neville Symington, noto psicologo portoghese che ha lavorato in Inghilterra presso la Tavistock Clinic e il British Institute of Psychoanalysis, sostiene che “un individuo può sopportare il dolore solo se c’è qualcuno capace di sopportarlo con lui. Non è tanto una questione di sapere dire la cosa giusta, quanto piuttosto di essere consapevoli del dolore che sta vivendo la persona che ci sta di fronte e di non dire niente che protegga noi e il paziente dal provarlo”.