Evitare la ricerca del colpevole

Ritengo importante affrontare uno dei punti più controversi del pensiero di Alice Miller, che nel dibattito scientifico a mio avviso ha dato adito a incomprensioni e confusioni, sintetizzabile nel tema della colpevolizzandone verso i genitori. Non si tratta soltanto di una questione teorica, dal momento che chiarire questo aspetto ha delle importanti ripercussioni sulla pratica psicoterapeutica, in particolare sull’importanza dell’indignazione sincera come veicolo di terapia.

Innanzitutto ciò che per la Miller è cruciale per una persona adulta sta nell’evitare di minimizzare le  sofferenze della propria infanzia, senza rinnegare la propria storia e, in ultima istanza, il proprio vero sé; per stare meglio occorre prendere un serio impegno con il proprio dolore, con le emozioni troppo a lungo represse.

Affermare che i traumi subiti siano stati reali, che le paure e le angosce siano stati così vere da dover subire un processo di rimozione prima di essere esperite, significa dunque affermare in primo luogo la verità di se stessi, non colpevolizzare i genitori. Certamente il bambino è innocente, afferma la Miller. E’ invece la ricerca del colpevole ad essere sbagliata. E’ questa ricerca fuorviante e “menzognera” del colpevole che porta a negare la verità dell’innocenza del bambino e dei traumi subiti. Non si può confondere la realtà dell’abuso con la colpa dei genitori.

Più volte la Miller evidenzia come i genitori si comportassero nella stragrande maggioranza dei casi come automi, guidati dalla loro stessa infanzia; grazie ai figli hanno cercato senza saperlo di soddisfare quei bisogni che avevano dovuto reprimere da piccoli: i bisogni di attenzione, rispetto, tolleranza, amore, protezione, cura.

“Appunto perché vorrei incoraggiare il bambino che è presente nell’adulto a esprimere i propri sentimenti – e dunque anche il risentimento – senza tuttavia sottrarglieli, proprio perché non accuso i genitori, pare che io causi difficoltà non indifferenti a parecchi lettori. Sarebbe tanto più semplice affermare che la colpa è tutta del figlio o tutta dei genitori, o che la si potrebbe ripartire equamente tra i due. Ma questo è proprio quello che non vorrei fare, perché da adulta, quale ormai sono, so bene che qui non si tratta per nulla di colpa, bensì di un non-poter-fare-altrimenti. Ma dato che un bambino non è in grado di capirlo, e dato che esso si ammala se cerca di farlo, vorrei aiutarlo a non dover capire niente di più di quanto gli sia possibile”[1].  Altrimenti lo si rinnegherebbe due volte, da piccolo per la salvifica, necessaria rimozione e da grande per lo sforzo di comprendere a tutti i costi il motivo del comportamento dei genitori senza prima essere entrato in contatto con se stesso. A una precisa domanda circa l’opportunità e l’aiuto dal cercare di comprendere i motivi del comportamento negativo dei genitori, così risponde la Miller: “Penso che sia vero piuttosto il contrario. “Da bambini abbiamo tutti cercato di capire i nostri genitori, e poi continuiamo a farlo per tutta la vita. Purtroppo è proprio questa compassione nei confronti dei genitori a impedirci molte volte di prendere coscienza della nostra sofferenza”[2].

Del resto la non colpevolezza non diminuisce la gravità della ferita inferta: la crudeltà non voluta non fa meno male.

Consideriamo ad esempio una madre che sia in difficoltà nel saper manipolare, toccare, accarezzare, tenere in braccio in modo adeguato, sensibile e caloroso un bambino. Non vorrebbe essere lei la prima ad desiderare di poterlo fare? Con ogni probabilità non sarà stata manipolata, toccata, accarezzare dalla propria mamma. Eppure questo “sapere corporeo” – afferma Winnicott – è “ciò che rende una madre utile”[3]. Fondamentale dunque, non accessorio. Non rappresenterà pertanto un trauma reale per un bambino questa mancanza? Chi potrebbe negarlo? In alcuni orfanotrofi i bambini, pur nutriti e vivendo al caldo, sono morti per questa mancanza di carezze. Ma chi potrebbe al contempo accusare una madre di essere colpevole per non averlo saputo fare? Chi è stato accarezzato non conosce l’istinto di morte.

Eppure negare (anche in terapia) la tragicità di quello che è realmente accaduto significa rinunciare alla verità. Al contrario, permettersi di vivere l’ira e la rabbia verso i genitori e il dolore e il lutto verso la propria infanzia non solo (1) è la via maestra per la guarigione personale, non dovendo più rivolgere inconsciamente questi sentimenti contro se stessi, ma anche (2) reca con sé profondi risvolti sociali di giustizia, dal momento che questi sentimenti non verranno più rivolti su persone sostitutive (i figli, il partner, altri bambini, il “nemico” designato di una qualunque ideologia), evitando così di tramutare inconsapevolmente e tragicamente il non riconoscimento del proprio stato di vittima originario, in persecutore di persone sostitutive da adulto, di tramutare l’inconsapevolezza delle ingiustizie subite nella coazione ad infliggerle poi  “ai deboli”.

“Acquisire la libertà di ammettere e di vivere i risentimenti risalenti alla prima infanzia non significa affatto che da quel momento in poi si diventi persone piene di rancore, ma, anzi, proprio il contrario. Appunto perché ci è permesso di vivere coscientemente questi sentimenti che erano diretti verso i genitori, non si è poi più costretti a riversarli su persone sostitutive. Soltanto l‘odio che si prova per persone sostitutive è inesauribile e inestinguibile, come ci insegna l’esempio di Adolf Hitler in quanto, sul piano cosciente, il sentimento venne separato dalla persona verso cui in origine era rivolto[4]”.

Addirittura (3) l’ira è l’unica via per il perdono, anche se occorre vigilare perché la fase dell’ira non si concluda prematuramente in modo forzato.

“Il vero perdono non passa sopra all’ira ma passa attraverso di essa. Solo quando sono in grado di indignarmi per un’ingiustizia che mi è stata fatta, quando riconosco la persecuzione in quanto tale e riesco a riconoscere e a odiare il mio persecutore, solo allora mi si apre la via al perdono. L’ira, la rabbia e l’odio repressi cessano di venire perpetuati solamente se si è in grado di scoprire la storia delle persecuzioni nei primissimi anni di vita. Tali sentimenti si tramuteranno nel lutto e nel dolore per il fatto che le cose siano dovute andare proprio a qual modo, per la solitudine patita, e pur in tale rincrescimento lasceranno posto a una comprensione autentica: la comprensione di chi è ormai adulto e riesce ad avere una conoscenza profonda dell’infanzia dei suoi genitori e, finalmente libero del suo odio, è in grado di nutrire un vero e maturo sentimento di empatia. Non è possibile costringere a donare tale perdono mediante prescrizioni e divieti; esso è sentito come una grazia e appare spontaneamente quando non ci sia più l’odio represso, perché proibito, ad avvelenare l’animo. Il sole non deve essere costretto a risplendere, quando le nubi si fanno da parte, esso risplenderà naturalmente. Ma sarebbe un errore voler ignorare le nubi, dal momento che ci sono”[5].

In conclusione la Miller ritiene responsabili non i genitori ma gli “addetti ai lavori” come gli psicoanalisti o gli psicoterapeuti, che non considerino adeguatamente questi aspetti: “Se però uno psicoanalista riesce a vivere questa sua angoscia che si origina nella primissima infanzia, e a elaborarla, si potrà forse domandare: « I miei genitori avranno ancor sempre bisogno che io li risparmi come ai tempi dell’infanzia, o posso invece comprenderne meglio il comportamento se li considero parte di un sistema generale, del quale sono vittime esattamente come me? Non mi avvicino maggiormente ai genitori, morti o ancora in vita che siano, se riconosco questa tragedia comune, senza volerla mascherare? […] Ben diversa sarebbe invece la responsabilità del pediatra, il quale cono­scesse già da altri casi le conseguenze dell’avvelenamento e che ne tacesse ai genitori la causa per non procurare loro sensi di colpa». Anche se vi fossero soltanto pochi analisti in condizione di porsi tali interrogativi, essi riusciranno a trovarvi risposta osservando l’evoluzione dei loro pazienti. Allora neppure le più complicate teorie, codificate da tempo immemorabile, potranno aver potere su di loro. Essi non vor­ranno più abbandonare né se stessi, né i loro pazienti per amore delle teorie”[6].

[1] Miller A., 1987 (ristampa ottobre 2013, La persecuzione del bambino, Bollati Boringhieri Editore, pp. 225-226

[2] Miller A., 2009, Riprendersi la vita. I traumi infantili e l’origine del male, Bollati Boringhieri Editore, p.89.

[3] Winnicott D.W., 1987, I bambini e le loro madri, Raffaello Cortina Editore Milano, p.4.

[4] Miller A., 1987 (ristampa ottobre 2013, La persecuzione del bambino, Bollati Boringhieri Editore, pp. 225

[5] Ibid., pp. 220-221

[6] Miller A., 1989, Il bambino inascoltato. Realtà infantile e dogma psicoanalitico, Bollati Boringhieri Editore, p.200-201.